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Manifesto per il Sì 2020 – Un elogio svogliato anche a questa riforma costituzionale

You say you’ll change the constitution
Well, you know
[….]

Don’t you know it’s gonna be
Alright Alright Alright

Nel 1968 i Beatles canzonavano chi voleva cambiare la costituzione perché, dicevano già allora, andrà tutto bene. 🌈 Nina Simone rispose loro l’anno successivo reinterpretando la loro canzone, Revolution, affermando il contrario: in sintesi, le istituzioni vanno cambiate, perché non andrà bene un cazzo. 

In questo riferimento alla cultura di quegli anni, qualsiasi parallelo con le proteste e i fatti del 2020 è strumentale e ignobilmente forzato: serve solo a edulcorare questo tragico encomio, privo di alcun entusiasmo e convinzione, alla proposta di riforma costituzionale a firma Quagliariello (Forza Italia) Calderoli e Romeo (Lega) Perilli e Patuanelli (M5S).

Per cercare quindi nell’inferno quello che inferno non è, o per evitare che l’abisso infine guardi noi, leggendo queste righe ascoltiamo quantomeno Nina Simone in sottofondo:

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A completare il quadro escheriano in cui ci troviamo, si osservi che scriviamo in sostegno al SI, rivolgendoci a una bolla schierata per oltre i 2/3 per il NO, che vive tuttavia in un paese schierato per oltre i 2/3 per il SI (almeno stando all’ultimo sondaggio pubblicato per sbaglio, in violazione di una delle tante regole assurde e senza paragoni al mondo emanate dal nostro sistema legislativo – in questo caso, pare che la condividiamo con il Mozambico). Terminato il disclaimer sul dadaismo del contesto, ecco i 3 ordini di ragioni per cui auspichiamo che il taglio dei parlamentari sia approvato, forse tutti riconducibili al fatto che l’insensatezza del sì è seconda solo all’assurdità del NO.

A completare il quadro escheriano in cui ci troviamo, si osservi che scriviamo in sostegno al SI, rivolgendoci a una bolla schierata per oltre i 2/3 per il NO, che vive tuttavia in un paese schierato per oltre i 2/3 per il SI (almeno stando all’ultimo sondaggio pubblicato per sbaglio, in violazione di una delle tante regole assurde e senza paragoni al mondo emanate dal nostro sistema legislativo – in questo caso, pare che la condividiamo con il Mozambico). Terminato il disclaimer sul dadaismo del contesto, ecco i 3 ordini di ragioni per cui auspichiamo che il taglio dei parlamentari sia approvato, forse tutti riconducibili al fatto che l’insensatezza del sì è seconda solo all’assurdità del NO.

Senza nessun entusiasmo e convinzione, andiamo dunque a votare sì a questo referendum costituzionale per 3 principali ragioni:

  1. Sfatiamo un mito: non un rozzo taglio populista, ma un’istanza che accomuna tutte le culture politiche e una riforma che ottiene, fra i maggiori costituzionalisti, più sostegno di altre proposte precedenti.

Da quasi 40 anni, in ogni legislatura il Parlamento si pone la questione della necessità di riformare la costituzione (hereinafter la Carta, al solo fine di fare un gioco di parole più sotto) e istituisce periodicamente commissioni bicamerali che elaborino proposte. I Presidenti della Repubblica sembrano sentirne in particolare la necessità: nel ’91 Cossiga mandò una picconata alle Camere sul tema, mentre Napolitano 20 anni dopo subordinò la sua disponibilità a un secondo mandato da 87enne all’approvazione di riforme istituzionali (rimanendo ahilui fregato: nominò commissioni di saggi, ma la riforma sottoposta anni dopo a referendum fu bocciata dal popolo con un sonoro #giorgiostaisereno).

Tra la disparata varietà di culture politiche, epoche storiche e composizione delle commissioni, un unico elemento ha attraversato indenne questi 40 anni di storia d’Italia: la riduzione del numero dei parlamentari, forse la sola proposta presente in ciascuna delle bozze di riforma, trasversale a tutte le forze politiche italiane che hanno attraversato la caduta del muro di Berlino, Mani Pulite, l’11 settembre, la crisi finanziaria fino all’attuale pandemia. Dal pentapartito a Forza Italia fino a, come diceva il presidente di quest’ultima, il PCI-PDS-DS-PD, con la nobile e coerente eccezione dei radicali, che oggi esprimono riserve di principio (nonché, per i malpensanti, di sopravvivenza politica) al taglio dei parlamentari tra le file di +Europa. Questi ultimi del resto sono gli unici 14 voti contrari in ultima lettura alla Camera lo scorso ottobre, a fronte dei 553 voti favorevoli di tutti gli altri partiti.

Tale consenso sulla necessità di ridurre i parlamentari sembra essenzialmente dovuto all’estensione del potere legislativo ad altre assemblee, dal Parlamento Europeo agli enti locali. Non ci appassionano questi argomenti, ci limitiamo a prendere atto, in una sorta di revisione sistematica della letteratura, di una quasi unanimità, fra politici e tecnici, sulla necessità di ridimensionare il parlamento. Tale consenso risulta univoco e costante nei decenni, fino a improvvisamente infrangersi nel 2018, nell’istante in cui l’ennesima bozza di riforma, giunta puntuale anche in questa legislatura, è stata formalmente avanzata da Lega e Movimento 5 Stelle. Da quel momento, il taglio dei parlamentari è diventato un capriccio populista dei grillini, frutto della moda dell’anticasta. Pur essendo stato proposto nei decenni da commissioni di cui hanno fatto parte Rumor, Ingrao, De Mita, Iotti, D’Alema, Violante, opporsi al taglio dei parlamentari equivale oggi a un sostegno alla nobiltà della politica contro la volgare antipolitica.

Questo universale voltafaccia trova riscontro in dichiarazioni di costituzionalisti, mi dolgo di assurgere l’ottimo Gaetano Azzariti a esempio di incoerenza (è solo il più autorevole e icastico del gruppo), ma afferma oggi:

“In Parlamento c’è un problema di qualità della rappresentanza più che di quantità. 945 o 600 che siano, la sostanza non cambia: l’attuale crisi del Parlamento non è risolvibile con un semplice taglio”.

Mentre ma che anni prima, valutando la proposta del 2016, scriveva:

“La riduzione del numero dei parlamentari è la previsione di maggior significato […] la modifica più apprezzata perché risponde ad un’esigenza avvertita dall’opinione pubblica […]. E’ anche assolutamente condivisibile perché un organo legislativo più selezionato favorirebbe certamente una razionalizzazione dei lavori ed accrescerebbe l’autorevolezza dei suoi componenti. […] la riduzione del numero dei parlamentari, oltre a rendere l’organo parlamentare meno pletorico e più funzionale, produce anche un implicito sbarramento elettorale che si opporrebbe naturalmente e senza traumi all’eccessiva frammentazione della rappresentanza politica”.

Altro paradosso della presentazione della proposta come rozzo taglio populista, è che riscuote tra gli esperti un’approvazione più ampia rispetto alla riforma del 2016, organica e frutto di lavori e consultazioni più estese della presente. Tra i principali esempi di costituzionalisti in questo senso, si sono espressi Valerio Onida, Ugo De Siervo e in parte Gustavo Zagrebelsky. Non si spiega, se non con ragioni di astio politico e personale nei confronti dei proponenti, come questa riforma limitata possa suscitare più approvazione della precedente proposta organica, frutto dei lavori di commissioni miste tra politici ed esperti, che aveva coinvolto gli stessi autorevoli costituzionalisti che si sono poi prodigati per affossarla.

Fatto sta che possiamo in sintesi sfatare un mito: l’attuale riforma non è un rozzo taglio populista, ma un’istanza che accomuna tutte le culture politiche degli ultimi 40 anni di storia d’Italia (con eccezione dei compagni radicali, che sono nella mia bolla e che quindi saluto) e una riforma che ottiene, fra i maggiori costituzionalisti, più sostegno di altre proposte precedenti.

2. Per sfinimento: alla terza riforma che bocciamo con un referendum, bisogna infrangere lo status quo.

Riformare la costituzione non è uno sfizio, è che in Italia non abbiamo un potere legislativo: né al fine della divisione tra poteri, che bilanci l’esecutivo e il giudiziario, né nell’accezione di organo che emana leggi. L’inadeguatezza del Parlamento come contrappeso del Governo e della magistratura è emerso platealmente durante la pandemia, quando l’esecutivo ha adottato misure palesemente incostituzionali tramite dpcm (per es. imponendo sanzioni penali per decreto), correggendosi peraltro prontamente nel giro di poche settimane, ma grazie a ben altri checks and balances, non certo dopo l’intervento della Camera o del Senato.

Inteso più funzionalmente il potere esecutivo come assemblea deputata a legiferare, basti ricordare i dati già diffusi in occasione dell’ultima riforma bocciata dal popolo quattro anni fa. L’iter parlamentare medio di una legge in Italia dura oltre 500 giorni, e 4 leggi su 5 le “fa” principalmente il Governo, ricorrendo o ai decreti legge che, sulla carta (nonché sulla Carta), devono essere giustificati da condizioni di grande straordinarietà e urgenza, o con decreti legislativi in seguito a una delega in cui il Parlamento legifera per dire al Governo di pensarci lui, pratica “esplosa” nelle ultime legislature peraltro eludendo il mandato costituzionale. Di fatto, numeri alla mano, ciò che è straordinariamente eccezionale è che una legge sia fatta dal Parlamento.

In questo contesto, le preoccupazioni sulla rappresentatività dei territori (qualcuno, di grazia, conosce il nome dei parlamentari eletti nella propria circoscrizione? Sorvolando sulle dinamiche che determinano le candidature in cosiddetti seggi blindati) non sembrano trovare riscontro nella realtà. La domanda da porsi è semmai se si consideri importante avere un potere legislativo funzionante, giacché non sembra una preoccupazione diffusa fra l’opinione pubblica.

Ben inteso, questa obiezione critica l’argomento del NO secondo cui con meno parlamentari si perde rappresentatività. Sarebbe azzardato affermare che, tagliando i parlamentari, l’assemblea guadagni in efficacia (per quanto sia opinione diffusa fra le commissioni di esperti avvicendatesi negli ultimi decenni). L’anomalia unica al mondo – “un unicum nel panorama del diritto comparato” – che impedisce al Parlamento di funzionare è il nostro bicameralismo ridondante, o paritario, o perfetto, per cui abbiamo due Camere elette (quasi) nello stesso modo, che fanno esattamente le stesse cose, e (apice del dadaismo) sono considerate l’una il contrappeso dell’altra. Espressioni degli stessi partiti e delle stesse maggioranze politiche, sulla carta (nonché sulla Carta) il Senato dovrebbe fungere da organismo di controllo nei confronti della Camera e viceversa. Questa la ratio della navette che l’iter legislativo impone per ogni decisione presa da Montecitorio a Palazzo Madama e che spiega i 500 e passa giorni che servono per approvare una legge: una volta raggiunto un accordo in un ramo del Parlamento, può accadere che si riparta da zero nell’altro. Risultano pertanto ridicole i dossier che comparano la rappresentatività tra le camere basse europee, giacché ignorano che l’Italia sia l’unico stato ad avere una seconda camera identica alla prima per composizione e funzioni.

Questa riforma, a differenza della precedente del 2016, che aboliva il Senato elettivo a livello nazionale e ne modificava poteri e funzioni, non risolve il problema. Questo ci rimanda al terzo punto:

3. Strategicamente, confidiamo che dopo di questa ne facciano altre.

Dopo la bocciatura nel 2016 di una riforma organica e complessa e proposta dal partito di maggioranza, votiamo su una proposta mirata (secondo alcuni, una riforma troppo ampia avrebbe violato lo spirito dell’art. 138), la più comprensibile all’opinione pubblica, condivisa fra tutte le forze parlamentari (in ultima lettura alla Camera ha ottenuto 553 voti favorevoli su 569, repetita iuvant, giacché i partiti che hanno sostenuto la riforma in Parlamento ora la criticano nella propaganda elettorale). Se bocciamo anche questa, che è la riforma più popolare immaginabile anche in teoria, non si immagina quale riforma potrebbe trovare un sostegno maggioritario sia nei partiti sia nell’opinione pubblica. Le conseguenze del taglio del 30% dei parlamentari sono secondarie: l’obiettivo finale noto è quello di superare il bicameralismo ridondante, la speranza di una serie di altre riforme passa più dall’approvazione di questa che dalla sua bocciatura.

Dagli anni ‘80 il Parlamento cerca di tagliarsi poltrone, con commissioni e proposte disparate, per poi vedersi bocciate le proposte di riforma in referendum con argomentazioni anche opposte (nel 2016 era troppo vasta, ora è troppo specifica). Un ossequio alla democrazia rappresentativa consisterebbe nell’avallare la volontà parlamentare, che si esprime con coerenza e costanza regolarmente da 40 anni e che è stata finora negata, in due casi dalla democrazia diretta.

Diverse delle certezze esposte sul tema non hanno ragion d’essere e si fondano su previsioni azzardate. Con meno parlamentari si avrà più controllo dall’alto, o più responsabilizzazione (o come dicono, accountability) del singolo? Spariranno dal parlamento gli inutili peones o le “teste pensanti”? Un’assemblea ridotta darà troppo lavoro ai suoi membri o sarà più agile ed efficace?

Queste considerazioni sono secondarie di fronte a un sistema istituzionale (o se vogliamo essere tragici, una democrazia) che non funziona. Certo questa riforma non è minimamente la panacea e neanche una soluzione, ma di fatto stiamo già adesso facendo a meno di un potere legislativo che sia effettivamente tale, che legiferi e faccia da contrappeso all’esecutivo e al giudiziario. Presentando la più condivisa e popolare fra le proposte elaborate negli ultimi 40 anni, l’approvazione della riforma costituirebbe un limitato e modesto tentativo di avere delle istituzioni funzionanti. Scusate se è poco.

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